PISTOIASETTE

L’ Italia nel piatto: il Berlingozzo di Lamporecchio

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  • 12:59, 24/03/23
  • di Francesca Valleri

Potrebbe sembrare fuori stagione, con la Pasqua alle porte e fuori tema, poiché il Carnevale è già alle spalle da un po’ ma il berlingozzo di Lamporecchio non conosce tempo e rimane prepotentemente sulle tavole tutto l’anno! Se è vero il detto che “nel nome un destino“ il berlingozzo “trova la sua origine nel verbo“ berlingare "ovvero godersela a tavola, divertirsi” e sembra assolutamente in tema non solo con il periodo carnevalesco ma anche con il giovedì grasso, giorno in cui, secondo la tradizione, veniva preparato e che segnava la fine di un periodo di baldorie. Strizza l’occhio alla maschera fiorentina del Berlingaccio, una faccia tonda, in carne e rossa a ricordare gli effetti dell’ abbuffata di cibo e vino, tant’è che ancora oggi si dice rivolgendosi ad una persona “che sprizza salute da tutti i pori”. C’è chi fa risalire il nome di questa squisitezza dolciaria ad un certo Berlinghieri, paladino di Carlo Magno, gran bevitore e mangiatore, chi fa riferimento alla matrice tedesca “Brett“ inerente sempre alla tavola, chi a quella latina “Berlengo” e chi, spingendosi oltre lo fa approdare direttamente dalla tavola di Cosimo I dei Medici e che i popolani pare lo portassero legato al collo, una forma a ciambella con un foro nel mezzo, durante il periodo di Carnevale a indicare i giorni della baldoria. Qualunque fonte o ipotesi si prenda per buona rimane sempre in pieno il tema delle grandi abbuffate e dei bagordi: “Pe’ Berlingaccio, chi unna’ ciccia ammazzi ‘i gatto!”. La ricetta, conosciuta anche da Pellegrino Artusi, ha origine a Lamporecchio e si riscontra una certa familiarità con gli ingredienti dei fratelli brigidini, anche per colore: una ciambella secca, dorata e priva di burro cotta in forno; molte le varianti  sul tema ma l’inimitabile prevede un’altezza al centro pari a poco più di 1 centimetro, friabile, al profumo di anice e bassa. Gli ingredienti pochi e semplici:

uova, 2 intere e 2 tuorli

150 gr di zucchero

50 ml di olio extravergine d’oliva 

semi di anice

250 gr di farina 00

1 buccia di limone grattugiata 

1 bustina di lievito per dolci 

Il procedimento è spedito: in una ciotola unire uova e zucchero fino al raggiungimento di una consistenza spumosa, poi, un po’ alla volta inglobare la farina setacciata, i semi di anice e il lievito. Il risultato un impasto da trasferire in una tortiera infarinata e pronta ad essere infornata per 30 minuti ad una temperatura di 180 gradi. Secondo Pellegrino Artusi, una volta ottenuto il raffreddamento del dolce passare una spolverata di zucchero a velo e poiché siamo in Toscana, perché no, accompagnarlo ad un buon vin santo o pucciarlo direttamente e non disdice neppure un buon bicchiere di Marsala. Si dice che la forma che adesso lo rappresenta, quello di una ciambella non sia quella antica che lo ritrae a sette lobi in una pala dell’Accademia della Crusca. Qualunque siano le origini, le forme e le tradizioni “pancia mia fatti capanna” perché è una delizia irrinunciabile!


Francesca Valleri
Francesca Valleri

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