Quello che vi stiamo per proporre è un tuffo nel passato. Attraverso le avventure, gli aneddoti ed i racconti di un grande calciatore pistoiese faremo un viaggio nel calcio che fu, in cui in ogni spogliatoio potevi trovare personaggi incredibili e lo stile con cui si viveva al suo interno era ben più genuino e familiare rispetto alla frenesia ed alla serietà alle volte esagerata di oggi. Ovviamente ogni epoca ha i suoi vantaggi e svantaggi, ma è sempre interessante poter confrontare i vari periodi del calcio, sia nel panorama nazionale che in quello della nostra provincia: sì, perché il nostro protagonista ha calcato entrambi i palcoscenici al massimo livello, anche se nel caso della Serie A si è trattato di un’esperienza breve e piena di situazioni strane e curiose. Stiamo infatti parlando di Massimiliano Scannerini, terzino classe 1955 nativo di Pistoia e che ha vestito tra le altre le maglie di Milan (giovanili), Pistoiese, Fiorentina, Prato e Spezia: insieme a lui intraprenderemo questo viaggio ripercorrendo la sua lunga carriera di calciatore professionista, che ha avuto il culmine a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, e più in generale la sua vita nel mondo del pallone che continua tutt’oggi.
Ciao Massimiliano, iniziamo quest’intervista partendo dai giorni nostri: attualmente lavori nella scuola calcio dell’Olimpia Quarrata, come ti trovi?
Sai, il mondo dilettantistico in cui lavoro è molto diverso da quello professionistico a cui ero abituato e anche al suo interno vanno fatte diverse scremature tra le società a seconda dell’esperienza che hanno, delle potenzialità economiche, delle strutture e della mentalità con cui attraggono bambini e genitori. Il problema principale che devo affrontare come allenatore in una scuola calcio di oggi è la mancanza di cultura nel gioco del calcio: se fossi in una Fiorentina o comunque una società professionistica ci sono delle regole da rispettare e si rispettano se si vuole restare; invece in un settore giovanile dilettantistico non c’è abbastanza rispetto e fiducia nell’allenatore da parte dei genitori e così ognuno parla e fa come vuole mentre le società restano deboli. Anche l’atteggiamento verso i ragazzi è diverso tra professionisti e dilettanti: loro vogliono passare un’ora per divertirsi e per stare con i compagni e gli amici, imparare il gesto tecnico viene dopo. Oggi bisogna aiutare ed essere attenti e delicati anche verso chi non è portato per il calcio: è giusto perché così si permette a tutti di giocare, come anche richiesto dalle leggi federali, però ho notato che i bambini più non riescono a stoppare o passare la palla e più ci restano male. Ai miei tempi non ci si faceva problemi a dirgli di cambiare sport.
Era così diverso il calcio giovanile del passato?
Intanto da piccolo si giocava sempre per strada: si tornava a casa da scuola per mangiare, uscivi e non tornavi fino a sera; giocavi solo se eri bravo, se eri scarso non giocavi o facevi il portiere. Questa mi sembra già una prima differenza importante; poi anche la conformazione del territorio era diversa, con meno strade e più campi c’era spazio per ogni tipo di gioco e per l’improvvisazione che oggi non c’è. La scuola calcio è nata proprio per dare ai bambini un’alternativa alla strada o ai passatempi dei giorni nostri come il computer. Infine mi riallaccio al discorso precedente per sottolineare ancora la mancanza di rispetto ed educazione a tutti i livelli della società: io ho iniziato a giocare in una società a 12 anni e i genitori non mi seguivano mai, andavano a vedermi solo a qualche partita e mi ordinavano di rispettare l’allenatore: è ovvio che se il genitore mette in discussione lui o l’insegnante scolastico il ragazzino dà loro zero credibilità, ma è quello che succede oggi. Anche il ragazzino stesso non viene valorizzato, perché invece di dirgli ‘puoi fare ancora meglio’ gli viene detto ‘sei scarso’ dai genitori stessi: ne ho visti tanti di episodi di attacchi d’ansia causati dalle aspettative e dalle critiche.
Visto che ne hai accennato, iniziamo a parlare della tua carriera: come sei arrivato tra i professionisti?
Io ho cominciato nello Spazzavento categoria esordienti. L’anno dopo fui subito notato da un osservatore: a quei tempi c’erano i cosiddetti ‘procuratori occulti’ che giravano i campi in cerca di talenti e durante un torneo a Peretola mi vide un osservatore del Milan, mi fecero fare un provino con il Peretola e mi presero; restai in quella squadra per due anni perché era una società satellite del Milan e così mi potevano venire a vedere. Provarono a portarmi su a Milano già a 15 anni, però i minori di 16 non potevano andare fuori regione per legge; così compiuti i 16 anni ci sono andato per giocare nella Primavera.
Dev’essere stata un’esperienza incredibile arrivare da ragazzo a giocare nel Milan.
Sì, è stato uno dei miei traguardi migliori, ma non credere che tutto fosse bello lì. Io vivevo a Milanello e la mia giornata era: sveglia presto per prendere il pulmino che mi portava alla stazione di Albizzate, da lì si andava alla scuola privata a Milano ed era un viaggio di un’ora sia all’andata che al ritorno; arrivato a casa dopo scuola mangiavi e subito allenamento perché il buio lì arriva presto; a quel punto la giornata è finita. Il sabato o la domenica giochi e a quel punto o vai a San Siro a vedere Milan o Inter o vai in trasferta con la prima squadra. Questa era la mia settimana e non era vita per noi ragazzi, non a caso ora il settore giovanile lo hanno spostato a Gallarate: allo stesso tempo avevo tutti i confort a disposizione, vivevo in una società di alto rango che ad ogni mia necessità non mi faceva mai mancare niente. C’era il dentista pagato, i premi partita per tutti, staff tecnico sempre a disposizione. Ricordo quando per Natale i dirigenti regalarono 5mila lire a tutti i ragazzi delle giovanili, me compreso: era un insegnamento alla cultura del risparmio. C’era proprio una mentalità da grande club, professionalità in tutti i settori. Non ho più trovato un ambiente paragonabile, anche la Fiorentina era già un luogo più spartano: per fare un paragone, quando giocavo in allenamento contro la prima squadra al Milan era vietatissimo far male ai titolari, se soltanto sfioravi Prati o un campione del genere ti distruggevano; a Firenze invece erano botte per tutta la partitella perché ci dovevamo mettere in mostra.
Sei mai andato vicino a giocare in prima squadra?
Vedi, sono rimasto un anno solo al Milan e non ho mai capito perché dopo avermi voluto a tutti i costi mi abbiano scaricato subito: il fatto è che il responsabile del settore giovanile mi aveva preso in antipatia e mi costringeva a giocare con la squadra B invece che con la squadra A. Nonostante questo mi chiamarono comunque a giocare nella rappresentativa nazionale dei professionisti, ma quel giorno mi mandarono a giocare in Primavera e non ci andai: mi ero fatto notare, ma non mi volevano valorizzare. Un sabato, tornando da scuola, entro in sala pranzo e vedo che c’è lo staff tecnico della prima squadra guidato dal grande Nereo Rocco: in quel momento mi sentii i loro occhi addosso. Vado a ritirare il pranzo, ma invece della pasta mi danno il riso e mi dicono: “Scannerini, mangia questo perché dopo devi andare subito al campo a giocare con le riserve”; e così mi ritrovai a giocare titolare a 16 insieme ai vari Prati, Zigoni, Belli, Magherini, Scarrone, grandi giocatori che non giocavano o dovevano recuperare da infortuni. Era la mia occasione: Rocco però voleva che stessi sempre dietro a difendere mentre io andavo su e giù per la fascia, per questo motivo mi trattò malissimo tutta la partita e negli spogliatoi mi urlò in faccia: “Testa di c . . . o io ti mando via”; non le mandava a dire lui. Lì capi che ero fregato e infatti il Milan non mi confermò.
E’ andata meglio alla Fiorentina?
Non proprio: dopo essere stato un anno in primavera fui aggregato alla prima squadra, ma a quel punto cambiò l’allenatore: Radice andò al Torino e al suo posto arrivò . . . Rocco! Io ero fregato di nuovo e raccontai a Paolo Rosi (giocatore della prima squadra) la storia di quell’amichevole di 3 anni prima: purtroppo Rosi la raccontò a lui e alla prima partitella d’allenamento mi cacciò dopo 20 minuti dandomi ancora della ‘testa di c . . . o’; dopo però Rocco cacciò quasi tutti dal campo perché non giocavano secondo i suoi famosi metodi, alla dirigenza questo non andò bene e lo richiamò chiedendogli di venire incontro ai giocatori. Dopo quella volta io potei continuare a fare quello che volevo sulla fascia e lui al massimo mi poteva dire: “Prendimi pure per il c . . . o, io te la farò pagare”. Nel frattempo in prima squadra giocavo solo in amichevole: dopo una di queste a Pontassieve, mentre il massaggiatore mi era alle prese con una mia ferita di gioco, Rocco arrivò e gli disse di curarmi per bene; poi sull’autobus sempre lui si sedette accanto a me e mi diede due confezioni di vino. Io pensai che fosse ubriaco o fuori di testa, ma i compagni mi spiegarono che era un modo per dirmi che domenica avrei debuttato contro la Juventus a Firenze: invece restai in panchina, non mi fecero entrare perché era una partita importante. Purtroppo la storia alla Fiorentina finisce qui perché per un errore nel documento il mercoledì dopo fui costretto a partire per il militare a Gorizia: mi avrebbero riconvocato per la sfida successiva contro la Samp a Genova.
Questo fatto è il più grosso rimpianto della tua carriera?
Certamente è un episodio che non mi andrà mai giù per come è andata e per il fatto che la mia carriera sarebbe potuta andare in modo diverso: avrei avuto molte più chance di poter andare in squadre di Serie A e B, ma soprattutto avrei avuto la soddisfazione di poter dire di aver giocato in Serie A; invece persi il treno e finii in Serie C al Gorizia, perché l’esercito mi diede la possibilità di trasferirmi alla ‘compagnia atleti’. Forse non era destino.
- Fine prima parte dell'intervista -